C’è luce oltre la disruption

Non basta investire in tecnologia per trasformare un’azienda: serve una nuova cultura aziendale che, attraverso l’integrazione e la formazione, favorisca la diffusione del digitale in tutta l’organizzazione.

 

Non basta investire in tecnologia per trasformare un’azienda: serve una nuova cultura aziendale che, attraverso l’integrazione e la formazione, favorisca la diffusione del digitale in tutta l’organizzazione.

di Marco Bianchi

Per qualunque azienda che non sia nata digitale, il cambiamento da affrontare per sopravvivere alla/profittare della/ rivoluzione industriale oggi in piena corsa risulta spesso, per non dire sempre, un evento traumatico.

In primo luogo, è ormai chiaro che il passaggio non consiste in un semplice incremento della capacità tecnologica dell’azienda ma che si tratta di una discontinuità, un vero salto di qualità. Non è sufficiente investire in piattaforme evolute se nello stesso tempo non si dà il via a una trasformazione dell’azienda nel suo complesso, che investe la totalità dei processi e delle funzioni, dalla strategia al marketing, dalla produzione alla gestione delle risorse umane e alla finanza. E che vede nuove funzioni affiancare la storica IT come, per esempio, quella del Digital Officer, già piuttosto diffusa nelle aziende americane.

In secondo luogo, la velocità che l’evoluzione accelerata delle tecnologie impone al cambiamento delle aziende è tale da rendere la digital transformation simile alla paradossale gara di corsa fra Achille e la tartaruga. Non appena l’azienda si impadronisce dell’ultimo sviluppo della tecnologia si accorge che questo è già superato e bisogna ricominciare a correre. Almeno, questa è l’opinione di alcuni esperti, secondo i quali ciascuno dei prossimi anni equivarrà, in termini di cambiamento tecnologico, a 30 o 40 degli scorsi anni.

In conclusione, il futuro non permetterà a nessuno di riposare su nessun tipo di allori. Ma se lo scenario è questo, occorre chiederci se le aziende sono pronte a fronteggiarlo, o se almeno si stanno preparando e come. Una risposta interessante proviene da una indagine realizzata dalla società di consulenza Russell Reynolds Associates (RRA) su un campione composto da 1500 senior executives, con l’obiettivo di comprendere in che modo il digitale trasforma il fabbisogno di leadership e di competenze delle aziende. L’indagine riguarda infatti aree come la scelta e l’esecuzione delle strategie digitali, le strutture organizzative, i fattori che ostacolano il successo. Il campione è rappresentativo di aziende di varie classi dimensionali, dalle più grandi alle più piccole, mentre le funzioni aziendali più rappresentate sono quelle di vertice, la finanza, l’IT, le operazioni e vendite/marketing. Geograficamente, il 40% delle aziende è nell’area europea e il 37% in quella nordamericana. Ma attenzione: tutte queste aziende sono state incluse perché dichiarano di avere una “strategia digitale”. Se l’arrivo della disruption è data per inevitabile in tutti i settori di appartenenza delle aziende, è interessante sapere che gli effetti più ingenti sono attesi nei settori “finanza”, “healthcare” e, in particolare,“manifattura”. Il 60% dei rispondenti ritiene che la visione e la strategia sono definite in modo soddisfacente, ma solo il 47% è convinto che a livello di esecuzione le risorse incaricate siano quelle giuste.

La spinta più forte verso la trasformazione digitale sembra venire dai vertici mentre assai meno “caldi” appaiono, ed è strano, i capi di funzioni chiave come IT, Digital, tecnologia e così via, fino ad arrivare a livelli oblomoviani per HR e finanza. Secondo Ric Roi, uno dei ricercatori della Russell Reynolds, sta emergendo un nuovo tipo di leader, che non solo possiede i classici skill dei leader innovatori – come l’attitudine a sfidare lo status quo e il potere delleburocrazie aziendali – ma anche caratteristiche molto marcate di coraggio, intelligenza sociale, tenacia nel raggiungere il risultato.

Serve un approccio integrato

Una seconda domanda concerne la focalizzazione delle strategie. Si delineano due distinte priorità: le interazioni con i clienti da un lato (77%), l’acquisizione di dati relativi ai clienti dall’altro (71%). Il 63% delle indicazioni riguarda invece i processi operativi.

Significativamente, il 57% dei rispondenti ritiene che i dati raccolti dalla loro azienda siano già più che sufficienti a implementare il business, ma solo il 44% pensa che siano utilizzati in modo appropriato. «La sfida adesso riguarda l’implementazione della strategia – commenta un altro consulente, Adrian Fischer – perché le aziende che hanno successo non solo hanno compreso che la tecnologia deve essere una parte cruciale del loro DNA organizzativo, ma si sono anche procurate le risorse umane adatte a una leadership di trasformazione, e hanno fatto l’indispensabile cambiamento culturale per potere mantenere questi talenti critici in azienda».

Come viene gestita la trasformazione digitale a livello organizzativo è un’altra delle aree oggetto dell’indagine. Risulta che nel 39% dei casi la gestione è affidata a un team centrale, mentre solo nel 16% dei casi è decentralizzata a livello di business, mercato, o area. Il modello prevalente è misto, con la simultanea presenza di strutture centrali e decentrate. La funzione marketing sembra essere la più attiva nel guidare iniziative digitali. Il successo, però, è reso più probabile da una solida alleanza con IT, data analytics e technology, e dalla capacità di coinvolgere la funzione commerciale, le operations e, ovviamente, il vertice aziendale. È necessario integrare le varie funzioni, operazione sempre difficile. Secondo Chris Davis – un altro consulente RRA – il successo di una strategia digitale dipende da un approccio integrato con una chiara identificazione della governance e l’istituzione di metriche condivise e trasversali. Ma se il successo non arriva, la causa più probabile non è nella carenza della leadership strategica o nell’insufficiente supporto da parte dei vertici aziendali. Secondo un terzo circa dei manager intervistati, il problema risiede soprattutto nel fatto che la struttura organizzativa non consente di realizzare tutte le opportunità che si presentano. Oltre la metà ritiene che il digitale è frenato da strutture a silos, dall’inerzia dei processi e dalla mancanza di competenze digitali distribuite all’interno dell’organizzazione. Tuttavia, il 44% indica anche la limitatezza dei budget, e il 41% insufficienti investimenti IT. La sintesi sta in due parole, “cultura aziendale”: secondo la ricerca, è questo il fattore realmente rilevante, in quanto condiziona i processi decisionali e l’integrazione. È il senso del commento di Jonas Augustson – sempre di RRA – concernente una grande multinazionale industriale: uno dei maggiori ostacoli alla penetrazione della digital transformation all’interno delle funzioni è l’inadeguatezza della struttura organizzativa. Una funzione digitale centrale genera il rischio di creare una torre d’avorio che ostacola la diffusione del digitale nel resto dell’organizzazione. Anche se i top executives hanno una visione strategica chiara, succede che il middle management possa non avere la capacità di sostenere il cambiamento.

Anche le risorse umane devono trasformarsi

In questo contesto, oltre a funzioni chiave come IT, marketing, operations, emerge un altro attore importante, ed è il capo delle risorse umane (HR). È ovvio che l’evoluzione dell’azienda dipende dalla qualità delle persone che vi lavorano. Secondo una recente indagine dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano su circa 170 direttori HR di medio-grandi aziende operanti in Italia, il 47% ritiene che la digital transformation richiederà nuovo personale nei prossimi due anni e che per il personale esistente sarà indispensabile un forte intervento di aggiornamento delle competenze. I direttori HR avranno perciò tre compiti da svolgere: il primo sarà studiare le conseguenze del cambiamento tecnologico sui profili professionali e individuare una strategia coerente; il secondo rivedere profondamente i processi di gestione e sviluppo delle persone per adeguarli ai cambiamenti introdotti dal digitale. Il terzo poi sarà rendere l’azienda capace di attrarre i talenti e i profili nuovi, ma anche di adottare politiche capaci di incentivarli e di trattenerli in azienda. Adeguare le “skill” dell’organico aziendale è la priorità per il 97% dei manager HR, mentre il 69% ritiene questo intervento necessario per tutti i dipendenti. Il cambiamento impatterà anche sulla stessa direzione HR, che dovrà dotarsi sempre più di competenze funzionali di gestione del cambiamento (l’83% del campione le ritiene molto importanti) anche attraverso l’adozione di nuove metodologie e strumentazioni tecnologiche, mentre passeranno in seconda linea quelle amministrative sempre di più gestite in outsourcing o automatizzate.

Per le aziende la competizione per attirare e trattenere i “talenti digitali” diventerà sempre più serrata, tanto più in Italia dove il sistema formativo di questo tipo di professionalità è largamente insufficiente. Non è un caso che il 48% delle aziende campione già oggi adotti politiche di “employer branding”, mentre il 16% intende farne uso entro la fine del 2017. Ma non basterà il branding: secondo il 36% del campione occorrerà lavorare sulla motivazione e la soddisfazione del personale. Piani di formazione, modelli di performance management basati sul raggiungimento dei risultati e smart working dovranno essere le frecce nella faretra di ogni HRO che voglia contribuire efficacemente alla strategia di digital transformation.

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a cura di Redazione